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Psicologia cognitiva

La psicologia cognitiva nasce verso la fine degli anni '50 in contrapposizione al comportamentismo. Quest'ultimo aveva gettato le basi per una psicologia fondata empiricamente. Entrambe le discipline, infatti, si basano su una scientificità di tipo ecologico, nel comune intento di assimilare lo studio della mente umana alle scienze fisiche.

Indice

1 Cenni storici

1.1 Modelli cognitivi

1.2 La revisione degli anni '70

1.3 Il nuovo orientamento

2 Multidisciplinarità

3 Voci correlate

4 Bibliografia

 

 

 

-Cenni storici

Come data fondamentale nella storia del cognitivismo è il 1956. La seconda metà degli anni '50 vide non solo il fiorire di nuove impostazioni teoriche e procedure sperimentali per lo studio dei processi cognitivi, ma anche la diffusione di una prospettiva differente da quella dominante negli Stati Uniti, che era stata essenzialmente quella comportamentistica: la prospettiva della psicologia cognitiva o del cognitivismo. Vi confluirono i contributi di discipline diverse: oltre alla psicologia sperimentale, alla linguistica, alla teoria dell'informazione e alla cibernetica, le neuroscienze e la filosofia della mente. Oltre all'impostazione interdisciplinare, la psicologia cognitiva era caratterizzata da altri aspetti che la differenziavano dal comportamentismo.

 

In primo luogo, si interessava dei processi cognitivi (la percezione, l'attenzione, la memoria, il linguaggio, il pensiero, la creatività), che erano stati trascurati dai comportamentisti o considerati come dei prodotti dell'apprendimento. A questi processi veniva riconosciuta sia un'autonomia strutturale sia una interrelazione e interdipendenza reciproche. Un'altra importante caratteristica della psicologia cognitiva è che la mente è concepita come un elaboratore di informazione che ha un'organizzazione prefissata di tipo sequenziale e una capacità limitata di elaborazione lungo i propri canali di trasmissione. L'analogia tra mente e calcolatore, era basata sulle nozioni di informazione, canale, sequenza di trasmissione ed elaborazione dell'informazione, strutture di entrata (input) e uscita (output) dell'informazione dell'elaboratore, strutture di memoria. Per spiegare tale organizzazione interrelazione strutturale e funzionale si diffuse l'uso di diagrammi di flusso, formati da unità (scatole) e aventi ciascuna compiti definiti (percezione, attenzione, ecc.) e da vie di comunicazione.

 

 

-Modelli cognitivi

Nei primi modelli cognitivistici, l'elaborazione dell'informazione era concepita come un processo che avviene stadio per stadio, terminate le operazioni proprie di un stadio si passa al successivo, e così via. Negli anni '70 furono presentati nuovi modelli che mettevano in evidenza sia la possibilità di retroazione di uno stadio successivo su quelli precedenti, sia la possibilità che si attivassero le operazioni di uno stadio successivo senza che quelli precedenti avessero già elaborato l'informazione per quanto li riguardava.

 

Un altro aspetto importante fu l'accentuazione del carattere finalizzato dei processi mentali. Il comportamento veniva ora concepito come una serie di atti guidati dai processi cognitivi ai fini della soluzione di un problema, con continui aggiustamenti per garantire la migliore soluzione. La nozione di “retroazione”, feedback, sviluppata dalla cibernetica divenne centrale in questa concezione del comportamento orientato verso una meta. Lo psicologo sperimentale del linguaggio George Miller, con le sue opere rappresentò un'autentica svolta nella rappresentazione del comportamento: il comportamento era visto come il prodotto di una elaborazione dell'informazione, quale è compiuta da un calcolatore, per lo svolgimento di un piano utile alla soluzione del problema. Il comportamento non era quindi l'epifenomeno di un arco riflesso (input sensoriale, elaborazione, output motorio), ma il risultato di un processo di continua verifica retroattiva del piano di comportamento secondo l'unità TOTE ( test, operate, text, exit): l'atto finale (exit) non consegue direttamente ad un input sensoriale o a un comando motorio, ma è il risultato di precedenti operazioni di verifica (test) delle condizioni ambientali, di esecuzione (operate) intermedie e di nuove verifiche (test). Nel 1967 uscì il libro dello psicologo statunitense Ulric Neisser, “psicologia cognitiva”, nel quale venivano sintetizzate le ricerche condotte nei 10 anni precedenti secondo la prospettiva che fu definitivamente chiamata cognitivistica. La letteratura sperimentale sui processi cognitivi crebbe a dismisura sostituendo le prospettive passate con la nuova prospettiva che si diffuse anche in campo della psicologia sociale e della psicopatologia. E' comprensibile quindi che nei primi anni '70 si parlasse ormai di rivoluzione cognitivistica nella ricerca psicologica.

 

 

-La revisione degli anni '70

A metà degli anni '70 ebbe inizio un'opera di revisione teorica e metodologica all'interno del cognitivismo che arrivò fino ad una autocritica su quanto era stato acquisito nel decennio precedente. Fu ancora Neisser a riassumere gli aspetti problematici essenziali emersi nella letteratura psicologica cognitivistica. Neisser affermava che il cognitivismo aveva apportato nuovi e importanti contributi alla comprensione dei processi cognitivi, ma allo stesso tempo era degenerato in una miriade di esperimenti e di mode, spesso privi di effettivo valore euristico. Si trattava di modelli generalmente relativi a situazioni di laboratorio e non estrapolabili a situazioni di concreto funzionamento della mente nella vita quotidiana; inoltre avevano un interesse più teorico che applicativo.

 

Neisser faceva un continuo riferimento all'impostazione teorica di James Jerome Gibson, che aveva una concezione cognitivistica di una costruzione della realtà esterna da parte della mente, secondo un'organizzazione sequenziale dell'elaborazione dell'informazione, stadio per stadio, ora invece criticata in base all'assunto che l'organismo nel corso dell'evoluzione si è dotato di sistemi sempre più economici e adeguati che consentono un'analisi diretta e immediata della realtà. Il richiamo alla validità ecologica degli esperimenti cognitivistici; la critica alla modellistica dei microprocesi e micromodelli all'infinito (le unità di elaborazione contenevano delle sotto-unità di elaborazione, e queste a loro volta delle altre, e così via); l'esigenza di introdurre nel flusso dell'elaborazione dell'informazione processi relativamente trascurati, come la coscienza e la produzione di immagini; le innovazioni nel campo dell'informatica e della simulazione su calcolatore dei processi mentali; le nuove acquisizioni nel campo delle neuroscienze; tutti questi furono elementi fondamentali che attenuarono l'interesse per il cognitivismo già nei primi anni '80.

 

 

-Il nuovo orientamento

Non vedendo realizzata effettivamente una vera e propria rivoluzione paradigmatica, nei primi anni '80 molti psicologi finirono con lo sminuire la rilevanza teorica e metodologica del cognitivismo arrivando fino a ritenerlo una continuazione, anche se in forma più sofisticata, del comportamentismo. Si diceva che aveva solo aggiunto dei processi intermedi tra lo stimolo e la risposta, ma il paradigma rimaneva sempre quello comportamentista. In questo contesto di riflessioni autocritiche da una parte, e di nuove acquisizioni in discipline di confine dall'altra, si sviluppò il nuovo orientamento della “Scienza Cognitiva”.

 

 

-Multidisciplinarità

La psicologia cognitiva è oggi una scienza fortemente multidisciplinare, e si avvale dei metodi, degli apparati teorici e dei dati empirici di numerose altre discipline, tra le quali: la psicologia, la linguistica, le neuroscienze, le scienze sociali e della comunicazione, la biologia, l'intelligenza artificiale e l'informatica, la matematica, la filosofia e la fisica.

 

Il costruttivismo può essere visto come una corrente del cognitivismo.

 

Dal punto di vista filosofico, la psicologia cognitiva assume la posizione ontologica del realismo critico, secondo la quale viene accettata l'esistenza di una realtà esterna strutturata, ma allo stesso tempo viene rifiutata la possibilità di conoscerla completamente. È da questa premessa teorica che si genera la diatriba con il movimento comportamentista: l'oggetto di studio non è più (soltanto) il comportamento umano, bensì gli stati o processi mentali, fino ad allora considerati una black box (o scatola nera) insondabile e non conoscibile scientificamente.

 

Tale presa di posizione nei confronti dello studio dell'attività mentale si traduce concretamente nell'affermarsi della concezione di comportamento umano come risultato di un processo cognitivo articolato e variamente strutturato di elaborazione delle informazioni (information processing). In questo senso, il cognitivismo fa proprie le scoperte derivate dalla cibernetica e dagli studi sull'intelligenza artificiale, al fine di comprendere gli algoritmi che sostanziano l'attività mentale.


 

 

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Direttore:   Dott. Pierpaolo Casto   

- Psicologo e Psicoterapeuta - Specialista in Psicoterapia Cognitivo - Comportamentale

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