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le disfunzioni degli atteggiamenti intenzionali

 

L’elenco che segue più sotto rappresenta un esempio, abbastanza rappresentativo, di atteggiamenti perseguiti consapevolmente che producono sofferenza in quanto irrazionali, paradossali (in quanto non possibili), implausibili.

Tali atteggiamenti sono credenze che guidano scopi nella condotta, e dunque sono l’elemento causativo di sofferenza. In sostanza, la inadeguata composizione di un piano di condotta,  cioè credenze e scopi pianificati, porta il soggetto a scontrarsi con delle ripetute invalidazioni del suo obiettivo: tutto ciò non è sufficiente a stimolare il soggetto a modificare i suoi scopi finali.

Gli atteggiamenti inadeguati sono sovraordinati rispetto a tentativi e specifiche interazioni del soggetto, ed in conseguenza di tale dato il mantenimento di una determinata intenzione inadeguata comporta l’inefficacia dei tentativi di soluzione che il soggetto impiega; tutto questo anche prescindendo dal fatto che il soggetto si sia reso conto che il problema da risolvere riguarda la intenzione di base e non le conseguenze comportamentali e psicologiche. Un soggetto, ad esempio, può capire che insistere nelle richieste di dipendenza non porta i suoi frutti ma persevera in quanto non ha esaminato seriamente il fatto che è quello stesso scopo ad essere inadeguato, e questo in quanto non può essere padroneggiato da lui ma dipende da altri (c’è una evidente sovrastima delle attribuzioni di controllo interno su qualcosa che è palesemente controllata esternamente al soggetto, cioè i desideri degli altri); oppure il caso di un soggetto che persiste nell’irritarsi se qualcuno è stupido o squalificato, pur riconoscendo che la sua irritazione non farà certo mutare il livello di preparazione o intelligenza in qualcuno.

Dunque, gli atteggiamenti intenzionali spiegano bene i paradossi della condotta e le situazioni negative che perdurano.

Perché un soggetto pur  valutando che una sua azione non risolve un certo problema non modifica la propria condotta? La risposta a tale questione, che in generale riguarda il problema del cambiamento o del mantenimento della sofferenza, è possibile se consideriamo il comportamento come un piano di azione, e quindi osserviamo che a monte di un tentativo di soluzione di un dato problema vi è una certa credenza il cui contenuto riguarda il valore che il soggetto attribuisce a quel tentativo, compresa la plausibilità e i criteri contestuali per metterlo in pratica. Quella stessa credenza è inserita in un piano che comprende una qualche credenza più generale il cui contenuto riguarda l’obiettivo finale, compreso il valore attribuito ad esse e la plausibilità di averlo. Come si può ben vedere, il cambiamento di un “pezzo” periferico del piano non modifica il piano stesso. Naturalmente, dobbiamo considerare che dopo un certo numero di tentativi negativi, esaurite le alternative periferiche, il piano debba essere riveduto nel livello più alto e generale (negli scopi strategici). Ma qui possiamo incontrare un fatto importante. Un soggetto può non avere una alternativa periferica o può non disporre di un contenuto alternativo al livello più alto o, infine, può non essere in grado di considerare che dovrebbe salire di livello. Questa ultima possibilità riguarderebbe, almeno teoricamente, soggetti meno sviluppati nella integrazione del proprio sistema conoscitivo (egocentrismo, infantilismo, concretismo, ...).

Non voglio intendere la pianificazione della condotta come un modo iper-razionale di agire semmai la frequente inadeguata pianificazione mediante il mantenimento di atteggiamenti disfunzionali spiega le diffuse sofferenze psicologiche. Intendo per “razionale” la eliminazione dei tentativi di soluzione infruttuosi e la capacità di esaminare un problema al giusto livello di spiegazione e descrizione.

 Ma dove sono i problemi? Un primo aspetto è quello, come ho già accennato, di non eliminare un tentativo infruttuoso, per determinati motivi: non voler modificare una abitudine (per ragioni ulteriormente esaminabili), non avere disponibile un tentativo alternativo, non accorgersi che quel tentativo è inadeguato. Qui sorge un secondo aspetto. Il soggetto, per poter funzionare ed adattarsi, deve poter confrontare una propria risposta con il successo o meno della stessa: se non posso accorgermi che una mia risposta ha successo o no, non posso adattarmi. Per qualche ragione interessante, un soggetto potrebbe non accorgersi che un tentativo non è utile o non è adatto; ciò potrebbe accadere se le ipotesi che hanno stimolato il tentativo di soluzione, cioè le aspettative (credenze ipotetiche), sono assunte per  vere ad ogni costo; o, come possibile alternative teorica, che quelle aspettative sono troppo importanti per il soggetto il quale non è pronto ad accettare un risultato alternativo. In pratica, o il soggetto riconosce una invalidazione e corregge il tiro, oppure persevera in quanto non accetta il costo da pagare di una modificazione di credenze importanti.

Questa analisi della condotta spiega sufficientemente il mantenimento di condotte disfunzionali;  un problema teorico però sorge se non viene risolto un punto importante: un soggetto non sceglie di credere a ciò che gli conviene (autoinganno ben chiarito da vari autori (Elster, 1989; Davidson, 1990; Castelfranchi, Miceli, 1995), e conosciuto tra gli addetti ai lavori come “legge di Pascal”). Nessun soggetto può esaminare prima i dati e dopo scegliere di credere a quel dato che più gli conviene; semmai, i soggetti credono ai dati che sono, per loro, più plausibili (cioè in sintonia con le credenze possedute che valutano come base o assunte come vere, o anche che derivano da una fonte valutata come autorevole e affidabile) oppure più verosimili (cioè derivanti dalla diretta raccolta delle informazioni, dai sensi, e coerenti con le credenze possedute). Per risolvere questo problema deve essere definito in quale modo un soggetto pur reputando di dover far qualcosa per uscire dal problema non modifica una credenza inadeguata.

Una prima risposta è che un soggetto difficilmente rivede una credenza di base. Un dato può essere sovraordinato a molte altre credenze che da quello dipendono o può essere un aspetto abitudinario, una routine, e quindi potrebbe non essere affatto preso in considerazione per l’esame, come anche la eventuale modificazione; ciò nondimeno, una abitudine ha un effetto stabile e pervasivo sulla condotta del soggetto (influenza scopi e credenze).

Una seconda risposta potrebbe essere quella che considera il soggetto non in possesso della scelta alternativa (che non sceglierebbe per mantenere la propria abitudine, come il caso precedente) ma che sceglie comunque di non cambiare nulla in quanto crede che sia più rischioso cambiare lo status quo che mantenerlo; in tale modo evita di apprendere. In questo ultimo caso il soggetto potrebbe apprendere qualcosa solo attraverso una via “differita”, per imitazione, constatando che altri soggetti hanno acquisito qualcosa senza i rischi temuti.

Nei due casi precedenti, comunque, c’è l’assunto che un soggetto cambia con difficoltà le proprie credenze importanti; ciò sembra essere in linea sia con le ricerche sul ragionamento in condizioni di incertezza sia con i dati di conoscenza provenienti dalla nostra osservazione quotidiana.

 

 

Analisi delle intenzioni disfunzionali

 

Quella che segue è una lista di atteggiamenti strettamente intenzionali il cui perseguimento espone il soggetto ad una empasse. Gli scopi di queste proposizioni, i contenuti, e le intenzioni, non sono realizzabili concretamente in quanto il soggetto non ha il potere per portarle a compimento. Questo deficit di potere nel raggiungere questi specifici scopi è una caratteristica generale degli esseri umani (e di tutti gli altri organismi). Non può essere raggiunto nulla che non sia in nostro potere, ma per questi scopi non è possibile acquisire questo potere. E’ possibile altresì padroneggiare questa difficoltà in due modi: o desiderando liberamente quegli scopi e facendolo sapere ad altri se essi ne sono implicati oppure accettando il fatto che non possiamo raggiungerli e dunque riducendo le implicazioni generali che quei desideri avrebbero comportato (essere assertivi o accettare; insistere o rinunciare).

Gli obiettivi necessari per la modificazione di tali scopi sono i cambiamenti di valutazione attraverso una modificazione sia di inferenze sia di valutazioni sia di assunzioni disfunzionali generali (modificazione dei B, a vari livelli). La “cassetta degli attrezzi” non può che consistere che nell’uso appropriato della discussione e della verifica empirica attraverso l’analisi di alcune assunzioni (credenze e desideri) generali; esse sono:

- vorrei/ voglio (pretendo)

- devo/ è utile

- posso/ devo

- opinione/ fatto

- parte/ tutto

- qualche volta/ sempre

- responsabilità/ caso.

Queste articolazioni sono la base del lavoro di modificazione delle convinzioni, sono i mattoni che permettono di riedificare una rete di credenze e scopi più adeguata; soprattutto, però, possono criticare e sfidare le convinzioni possedute dal paziente e dirigere la modificazione a questo livello.

 

Varie assunzioni, teorie personali e piani di condotta possono essere sintetizzati da queste proposizioni che seguono:

 

1) voglio X e non riesco ad averlo: in tale proposizione il soggetto si confronta con un obiettivo (X) che non può perseguire; il soggetto può recedere e rinunciare a tale scopo finale, oppure non rinunciando può insistere e restare bloccato, a volte non riuscendo a giustificare la situazione in cui pur volendo qualcosa a volte non la otteniamo.

 

2) voglio X e voglio Y e non riesco ad averli insieme: il soggetto non riesce o non vuole scegliere; questo vale solo per le mete incompatibili, quindi deve essere visto se due obiettivi sono in realtà incompatibili; il soggetto è bloccato in quanto non assegna una priorità.

 

3) non voglio sentirmi in modo X: tale proposizione si riferisce alla impossibilità di agire ad un livello diverso di quello intenzionale, in quanto pur non desiderando avere una certa sensazione di fatto l’abbiamo; il soggetto può agire in vari modi per creare le condizioni favorevoli per ridurre o impedire un certo stimolo non intenzionale ( C), ma di fatto non può farlo direttamente; spesso è non perseguendo tale scopo che lo stimolo si riduce o si risolve.

 

4) voglio X ma dovrei volere Y: il soggetto pur desiderando un certo obiettivo, valuta negativamente questo fatto in quanto ha delle assunzioni generali nelle quali un certo obiettivo (X) è o incompatibile o almeno indesiderabile; il soggetto si trova in conflitto tra un desiderio specifico e una teoria generale, e non riesce ad articolare né i casi particolari o eccezioni, né è in grado o desidera modificare parte della teoria.

 

5) Voglio X anche se non posso avere X: se il soggetto non crede all’effetto invalidante e negativo delle proprie azioni allora può insistere anche contro l’evidenza plateale che un certo X, di fatto, non lo raggiunge; è possibile che un soggetto ignori il risultato di certe proprie azioni o non desidera verificarne l’effetto, e dunque tende, per principio, a continuare nella direzione stabilita; in alcuni casi il soggetto può insistere perché non altro davanti, non può scegliere nulla (“vorrei vivere anche se so che non posso più continuare a vivere”), ma in questo caso il soggetto può desiderare liberamente X anche se conosce la propria mancanza di potere su X e quindi non punta tutto sull’insistenza.

 

6) non posso fare a meno di X: il soggetto crede che X sia tutto, o sia un bene indispensabile, o un mezzo insostituibile; è il caso della indispensabilità, nella quale il soggetto non vede l’alternativa; spesso il soggetto ha delle convinzioni generali, altre volte ha delle credenze specifiche che ha costruito in esperienze concrete specifiche e particolari, ed in base a tali valutazioni ed inferenze crede che quelle aspettative che ha siano l’unico volto possibile della realtà.

 

7) non voglio essere X (o non voglio avere un “tratto” X): il soggetto si pone lo scopo di essere in un certo modo non badando al fatto che ciò che a volte significhiamo con alcuni termini personologici e caratteriologici è in sostanza il resoconto del giudizio di altri (educato, sensibile, onesto, comprensivo, simpatico, spontaneo, ...); da alcuni è definito “effetto Stendhal”, il quale, come si sa, voleva diventare completamente spontaneo in società.

 

8) non voglio credere X: le credenze non sono intenzionali, quindi non possono essere oggetto di scelta; tuttavia, molti pazienti rifiutano molte credenze e constatazioni sulla base delle conseguenze che queste conoscenze comporterebbero secondo proprie assunzioni e schemi; i tentativi di rifiutare conoscenze che gli stessi soggetti hanno avuto modo di percepire è sempre un problema complesso; molti autori tendono a non trattare tali rifiuti come inconsapevolezze complete ma come tentativi continui di bloccare, interferire, e deviare i processi attentivi su altre conoscenze più neutrali.

 

9) non voglio che S sia X: qualcuno crede che il nostro potere sia anche quello di influire direttamente sugli altri, ma ciò non è di fatto possibile; dunque, i soggetto si pone lo scopo volere che qualcun altro sia fatto in un certo modo, o si comporti in qualche particolare modo, ma resta deluso; pur potendo desiderare che qualcuno o altri siano come ci piace o come vorremmo, le persone sono tali al di là della nostra volontà e del nostro desiderio.

 

10) non voglio che S creda X (o voglio che S creda Y): è il più comune paradosso che le persone attivano nelle relazioni interpersonali; tale proposizione è la base di tutte le fobie sociali, di tutte le timidezze, di ogni forma di dipendenza dagli altri e di sottomissione, di tutte le subordinazioni comuni che gli individui attivano, e delle quali si lamentano sia direttamente sia riguardo i loro effetti; pur potendo desiderare un giudizio favorevole o positivo dagli altri il soggetto non può pretenderlo, pena l’effetto paradossale della bizzarria della stessa richiesta; il soggetto può attivare tutte le condizioni in suo potere che possono favorire un giudizio positivo (comportarsi simpaticamente o benevolmente, essere generosi, aiutare, sorridere, ...) ma alla fine l’effetto non è mai scontato perché il proprio comportamento non agisce direttamente sulle libere opinioni degli altri.

 

 

Direttore:   Dott. Pierpaolo Casto    - Psicologo -    Via Mazzini, 76   73042  CASARANO  (Le)   Tel.   328. 9197451

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